Riflessioni

IL SEGNO DI GIONA

Il segno di Giona Senso e nonsenso della vita, con Cristo e senza Cristo In un recente contributo si diceva che dal punto di vista dei poteri forti di questo mondo, Gesù ha dimostrato scientificamente che dare, darsi e fare il bene non conviene. Il che è vero per il mondo e per i giochi di potere di questo mondo, ma si rivela un’idiozia perfetta dinanzi al Cristo risorto per la potenza di Dio. Qui, però, bisogna avere il coraggio di affrontare il dilemma cruciale, di guardare dritto alle due possibilità – solo due, uniche e opposte – che si parano dinanzi alla somma della storia del mondo e del cosmo. “Se Cristo non è risorto, la nostra fede è vana” (1 Cor. 15,17). Questa formula di Paolo è molto più draconiana, inflessibile, acuta e rigida del filo della lama dei coltelli che l’Isis adopera per sgozzare. Se Cristo non è risorto dai morti, e non ha quindi assunto la vita di Dio, la fede dei discepoli è una sciocchezza. Buona o cattiva fede che sia; fede vera o falsa che sia; fede di molti, di moltissimi oppure di pochi, di pochissimi; fede attestata da sacri libri o sognata; fede inventata a tavolino o fondata su apparizioni; fede pregata o praticata; fede invocata o sperata; fede amata oppure odiata; tutta la fede, ogni fede, e quindi ogni fiducia è baggianata, cretineria, fesseria, scemenza, stupidaggine, scempiaggine. E con la fede vana, dentro lo stesso pozzo senza fondo di imbecillità, vanno gettate pure ogni speranza e ogni sentimento di amore. Se Cristo non è risorto, e quindi la fede è vana, allora “lasciate ogni speranza, o voi che entrate” in questo mondo. Poiché questo è – lo è davvero – l’inferno. Qui, dove la fede è vana, non ha senso l’amore, infatti non esiste nessun amore “che move il sole e l’altre stelle” poiché regna l’odio, la sopraffazione, la malvagità che i poteri – forti, piccoli e minimi – esercitano quotidianamente. Se Cristo non è risorto, la fede è la più vana di tutte le vanità. Resta verificato con forza inattaccabile il teorema secondo cui “vanitas vanitatum, et omnia vanitas”, vanità delle vanità, e tutte le cose vanità. Così attesta – serissimo e inascoltato – il predicatore biblico, Qoelet (Eccl. 1,2). Nulla dunque rimane, poiché nulla ha senso. Ogni cosa è nonsenso, vanitas. Stupro e carezza non sono l’uno male e l’altra bene, ma sono nulla. Amore materno e odio razziale non sono l’uno bene e l’altro male, ma sono nulla. Chi accoltella e chi guarisce sono nulla. I morti ammazzati in Siria o i feriti curati negli ospedali di guerra sono nulla. L’italico eccidio di migliaia di inermi a Debre Libanos (Etiopia) o i milioni di malati salvati da Fleming (penicillina, antibiotici) sono nulla. Tutto è nulla. Ogni cosa si risolve nel nulla. Qui il nichilismo di Nietzsche cerca e ritrova la definizione rigorosissima dell’antico teorema di Qoelet, ipotizzato con coraggio inaudito dallo stesso Paolo apostolo, il quale chiaramente dice che “è vana”, è nulla, è vuota, quindi è stupida la fede se… Il grande “se”. Ogni fede è vanitas, tutte le fedi sono vanità. Se Cristo non è risorto dai morti, la vita è una danza sull’abisso del nulla. Buona fede e fede buona sono nulla. Mala fede e fede artefatta sono nulla. Umile fiducia e sospettosa diffidenza sono nulla. Credere e non credere sono vanità. La commedia che ognuno recita sul palcoscenico della vita è una tragedia realissima, un nonsenso tragico. Avendo preso sul serio il primo corno del dilemma, e quindi senza distogliere lo sguardo dalla foiba abissale del nonsenso, si può e si deve prendere con altrettanta rigorosa serietà il secondo corno dell’alternativa. “Invece, Cristo è risorto dai morti, il primo tra coloro che si sono addormentati… Cristo è la primizia”, poi tutti “quelli che appartengono a Cristo saranno vivificati in Cristo” (1 Cor. 15,20 ss.). Ci sarà, dunque, la “risurrezione dei morti”. E “in Dio” si può nutrire “la speranza che ci sarà una risurrezione dei giusti e degli ingiusti”(Atti 24,21.15). Se Cristo, invece, è risorto dai morti, questo evento unico è il solo “evento” che spacca la Storia, crea una fenditura abbastanza ampia per “uscire dal mondo”, spiana l’unica via di fuga dalla schizofrenica condizione di morte in cui mi trovo (Rom. 7,14 ss.), provoca la rivoluzione e scardina i cancelli dell’immenso manicomio che è questo mondo di menzogne, di finzioni, di morte. Siccome “vedo” con lucidità e non dimentico mai il primo, tragico corno del dilemma, posso e devo prendere con gioia non spensierata l’alternativa offerta in Cristo, che “invece” è risorto. Se “invece” è risorto, proprio per questo non posso né devo estraniarmi dalla vita in questo mondo – problematico, infernale, malato, quindi bisognoso della vita del risorto. Non posso né devo rifugiarmi in una chiesa globalizzata (cattolica, per tutto e per tutti) né tantomeno in una chiesa chiusa (autonoma, autarchica, claustrofobica). Se “invece” è risorto, allora è questo l’unico chiodo da battere, oggetto e soggetto di buona notizia, cioè di quell’annuncio seriamente evangelico che nulla ha a che fare col facile proselitismo (evangelico), col vuoto profetismo (evangelico), con gli (evangelici) giochi e premi della religione e con la vergognosa, insopportabile semplificazione delle difficoltà e delle problematicità poste dall’evangelo di Gesù: il quale “invece” è risorto, ma dopo i dolori della evangelizzazione e le pene della croce. Se “invece” è risorto, allora anche la poca fede fiduciosa del passero (“ma voi valete più di molti passeri”) può esser vista come il molto di una vita veramente umana dotata di senso. Ogni piccola cosa che avviene – dalla morte di un pettirosso al primo trapianto di faccia attuato recentemente a Roma – assume senso in totale e assoluta dipendenza (e mai indipendenza, in nessun caso e in nessun senso) dalla risurrezione di Cristo dai morti per la potenza di Dio. Se “invece” è risorto, allora – e solo allora – ha senso porre la differenza tra le epurazioni staliniane e il lebbrosario di Albert Schweitzer a Lambaréné, tra le stragi hitleriane e l’impegno serissimo del più piccolo di coloro che “credono in me” [Gesù] e agiscono qui e adesso per la giustizia nello spirito del risorto, per la pace nello spirito del risorto, per la gioia nello spirito “santo” (Rom. 14,17). Non consiste proprio in questo il regno dello spirito di Dio? Spirito “santo” perché di Dio, potenza della vita di Dio, quella vita realissimamente divina che Gesù ha assunto con la risurrezione dovuta alla potenza di Dio, “costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito Santo mediante la resurrezione dai morti” (Rom. 1,4). Tale potenza di Dio la trovo manifestata nella risurrezione di Gesù “primizia” dei morti e dichiarata nell’Evangelo che, appunto, è “potenza di Dio per la salvezza” di chi crede (Rom. 1,14). “Chi crede”, cioè chi osa fidarsi, confidare, affidarsi alla “potenza di Dio”, che sempre ha a che fare con la debolezza. “Chi crede”, pur senza ignorare la foiba abissale di cui sopra, volge ora lo sguardo al “trafitto” (il nonsenso) ma anche al “primo” risorto (il senso) e, ancora per poco, all’unico risvegliato alla vita di Dio fra tutti coloro che “si sono addormentati”, fra tutti coloro che oggi “dormono sulla collina” di Spoon River, fra tutti noi che stiamo per addormentarci. Se “invece” Gesù è risorto per la potenza di Dio, allora – e solo allora – devono tremare le forti potenze di questo mondo, potenze politiche, sociali, economiche e religiose di questo manicomio globale che è il mondo – inchiavardato e dilaniato da rancori e interessi, affermazioni e smentite, strette di mano e tranelli, sorrisi e tradimenti nell’oceano delle menzogne . Tremino gli aguzzini impuniti, i mal/dicenti che pensano di farla franca; tremino i facitori di male che si incoraggiano e si congratulano a vicenda; tremino quanti giocano il gioco della religione, per vincere la gara dei grandi e dei piccoli numeri in chiesa; tremino i falsi che, da ladri e assassini, hanno raggiunto posizioni elevate nel mondo; tremino i religiosi accaparratori, i santificatori, gli accentratori religiosi che rendono gli altri loro dipendenti “nel nome di Cristo” – spacciatori di oppio che ottenebra famiglie e popoli. Tremino perché, inesorabilmente legata alla risurrezione di Cristo, sta la “vendetta di Dio”. La “vendetta” che i religiosi dimenticano per annunciare ipocrite misericordie. Alla vendetta “di Dio” non si accenna mai. Non sarebbe religiosamente corretto. Se “invece” Gesù è risorto, allora occorre e ha senso continuare a tentare di vincere il male col bene (perché c’è differenza tra i due) in questo mondo (Rom. 12,20b), sia quando sembra che vinca il male sia, criticamente, quando sembra che vinca il bene. Occorre attendersi l’adempimento della vendetta solo alla fine di tutte le fini: “A me la vendetta, io darò la retribuzione, dice il Signore” (Rom. 12,19). Occorre pregare per la vendetta: “Fino a quando, o Sovrano santo e verace, ti tratterrai dal condannare e vendicare il nostro sangue sugli abitanti della terra?” Ecco la domanda di tutti gli scannati per la parola, i male/detti per la parola, gli odiati per la parola e per la testimonianza resa alla verità, alla giustizia, alla bontà. La risposta divina prevede la “veste bianca” che Dio dona a coloro che egli onora, e poi l’assicurazione che ormai manca “poco” (Ap. 6,9 ss.). Nonostante la serissima alternativa del se “invece” Gesù è risorto, la gente ignora di fatto l’amore e il rigore dell’Evangelo. La ragione non è difficile da comprendere. Abili farisei infittiscono i cieli di santificati che, coi loro miracolucci, salgono alla gloria degli altari; esperti sadducei predicano un evangelo della dipendenza; entrambi si alleano per attrarre la superficiale attenzione spirituale di molti. Ma non è forse proprio così che si finisce per dimenticare Cristo? Non è forse proprio così che la persona e la mediazione di “Cristo Gesù uomo” (1 Tim. 2,5) sono trascurate da molti? I quali sono continuamente esortati a volgersi ai morti invece che al Dio vivente mediante il risorto oppure, come minori, sono tenuti “sotto tutori e amministratori” (Gal. 4,2), dipendenti da questa persona o da quella personalità. Proprio così è come se Cristo non fosse mai risorto. La potenza sconvolgente della sua risurrezione è ben poco considerata, anzi ignorata da molti. In quel come se si annida la tragedia. Per molti, anche fra quanti dicono di credere, è proprio come se Cristo non fosse mai risorto e, forse, neppur mai esistito. Un buon uomo saggio per alcuni, un Che Guevara ante litteram per altri, un personaggetto mitico per altri ancora. Ormai il confronto di Gesù con Mosè e Maometto, con Budda e Krishna è sereno, acritico, e serenamente accolto dai molti che vi cercano e vi trovano acritiche somiglianze. La specificità radicale di Cristo, cioè la sua risurrezione per potenza di Dio, non ha alcuna ragion d’essere. Pertanto, il come se si traduce in de facto, di fatto Cristo non è risorto. Resta quindi verificato, purtroppo, il radicale e amaro enunciato del teorema di Qoelet e di Paolo, “se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede”. La risurrezione di Cristo non ha alcuna risonanza interiore nelle menti di tanti cristiani e di tutti gli atei, i quali tutti ignorano fin da fanciulli le Scritture e la potenza di Dio. Sgorga qui, da questo come se che è un fatto, la sorgente della sfiducia e del nichilismo odierni, come pure l’ipocrisia di una religiosità necessariamente falsa perché esteriore, tradizionale, celebrativa, non creativa né ricreativa nello spirito, ripetitiva, morente per ignoranza, per volgarità. Una religiosità vana, vuota, come la fede che la esprime. Una vanità di facile verifica se solo si pensa che un cibo preparato da un attore o da uno chef fa discutere per ore o per giorni, mentre su una efficace riflessione biblica quasi nessuno discute: si parla d’altro, si socializza (parola e significato volgari). Poi, dopo la celebrazione, si torna sereni e chiusi nelle nostre case chiuse. Non case accoglienti, luoghi dell’Evangelo del risorto, come la casa ospitale di Cornelio o di Prisca che confidarono nel risorto e si aprirono a lui e al prossimo, ma case private in cui regna non Dio ma la orrida privacy. Case vuote e ben spazzate. Private di Cristo risorto per la potenza di Dio. La spruzzatina di acqua benedetta, a pasqua, non basta a farlo ritornare. La religiosità vuota, nutrita di fede vana, rende nehushtan culti e messe, azzimi ed eucaristie (2 Re 18,4). Se Dio sa ogni cosa, vede anche quanto è ardua in questo momento la via della fiducia in Cristo risorto per la potenza di Dio. Tuttavia, proprio questo è l’attimo in cui si esige di sperare contro ogni speranza, di esser certi contro ogni certezza, di partire senza sapere dove si sta andando, per poter uscire da questo inferno di guerra, da questo purgatorio di mali, da questo paradiso di ipocrisia. Per poter dire col Poeta “E quindi uscimmo a riveder le stelle”. © Riproduzione riservata Roberto Tondelli – 10 2018

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