Riflessioni

Umiltà, valore morale fuori moda?

Umiltà, valore morale fuori moda? L’umiltà è la virtù più difficile da conquistare; niente di più duro a morire del desiderio di pensar bene di se stessi (T. S. Eliot, Shakespeare e lo stoicismo di Seneca) Bisogna che Egli cresca, e che io diminuisca (Giovanni Battista in Gv 3,30) I cristiani occidentali sono come i sassi in fondo al fiume: umidi fuori e secchi dentro (Ghandi) L’ipocrisia viene talvolta considerata fondamento delle relazioni umane. Gesù ne conobbe gli effetti e seppe riconoscere gli ipocriti (Mc 12,15). Per Dostoevskij l’uomo ha assunto l’ipocrisia a principio universale. Proprio per questo l’osservanza della verità esprime il massimo atto sovversivo che si possa compiere, tanto che gli antichi Romani ne ravvisarono gli effetti socialmente pericolosi coniando l’adagio veritas odium parit, la verità genera l’odio. La verità diventa perciò per l’individuo, in particolare per il credente, via privilegiata al raggiungimento della libertà interiore (Gv 8,30 ss.), anche se obbliga a vivere controcorrente. La conoscenza della parola di Cristo diventa perciò la scoperta della verità assoluta, che guida alla adorazione a Dio (Gv 4,24 s.). La verità, scevra da ipocrisia, conduce alla non meno rilevante pratica dell’umiltà. Non è difficile constatare come l’umiltà sia una virtù scarsamente presente nelle relazioni umane e solo sporadicamente coltivata, ancor più in questo tempo in cui le esibizioni di superbia e arroganza, amplificate dai mass media, non scandalizzano affatto. Nell’immaginario collettivo attuale, l’umiltà è la qualità esibita da persone considerate dimesse, remissive, passive. Etimologicamente umiltà viene da humus, lo strato fertile del terreno. Di qui anche la parola homo. Non dimentichiamo che nella Genesi l’uomo è tratto letteralmente dalla terra. Poi Dio soffia in lui l’alito vitale (pneuma). Scientificamente, i “materiali” rintracciabili nell’organismo umano sono gli stessi che compongono il nostro straziato pianeta. L’umiltà indica perciò il livello più basso, il terra terra. Tale accezione nel corso del tempo si è identificata con la condizione socio-economica, infatti si usa dire: “persona dalle umili origini; di umile estrazione sociale” perdendo il legame con la più intima sfera morale, riferimento in principio più attinente. L’esercizio di questa preziosa virtù, acquista una posizione centrale nell’insegnamento e nella personalità di Cristo Gesù: ... il quale, pur vivendo a immagine di Dio, non volle con l’usurpazione farsi uguale a Dio, ma spogliò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini (Fil 2,5 s.; cfr. Col 1,15 ss.). Il contrasto è lampante: Gesù incarna l’umiltà indossando i nostri panni, vivendo e subendo la miseria delle esperienze umane, non pensando mai di ricorrere all’uso “reattivo” della sua potenza divina, cosa che avrebbero pensato di fare gli stessi apostoli (Lc 9,53 ss.). Si immolerà alla morte della croce come un comune mortale anzi, come un delinquente. Alla sua vita, la folla preferì quella di un criminale. L’esempio di umiltà qui è estremo. Ma è proprio ciò che dovremmo emulare di Gesù: la capacità di assumere il ruolo di “servo”, mediante la pratica “rivoluzionaria” del servizio per i fratelli e le sorelle in Cristo e per gli altri, a prescindere (Mt 20,28). In questo, Gesù s’identifica tutt’uno con Dio: Chi ha visto me, ha visto il Padre (Gv 14,7ss). Verso la fine del suo mandato di salvezza, il Signore manifesta una grande preoccupazione, insegnare agli apostoli il concetto e la pratica dell’umiltà con una certa impellenza. Questi giganti della fede, che vissero gomito a gomito con Gesù per tre anni, che videro con i loro occhi i segni da lui i compiuti, che ascoltarono con le proprie orecchie le sue ineffabili e uniche lezioni di vita, non ne compresero per tempo l’importanza. Il Maestro fu costretto ad agire a più riprese, ravvisando rischiosi segnali di superbia in seno al gruppo. a) Intervenne su questo specifico argomento, quando gli apostoli inizialmente lo “sfiorarono”, ponendo la domanda su chi fosse “il maggiore nel regno dei cieli (Mt 18,1), come dire chi di loro fosse “papa”. La risposta, inattesa per gli apostoli, subordinava l’accesso al Regno celeste al cambiamento dell’atteggiamento interiore alla stregua di quello dei bambini, data la loro naturale tendenza ad essere assoggettati ai genitori e agli adulti della comunità; ad essere sempre disponibili (Mt 18,3), prerogativa necessaria per qualificare il “più grande”, cioè colui che ha la disponibilità ad umiliarsi (Mt 18,4). Dirà poi il Signore, in un’altra circostanza, che Giovanni il Battista sarebbe stato “il più grande tra i nati da donna” (Lc 7,28) e, non a caso, sarà proprio il Battista ad esprimere il senso pieno dell’umiltà (Gv 3,30) b) La contesa, che avrebbe potuto minare pericolosamente l’unità del gruppo apostolico e, con essa, la realizzazione del piano di salvezza, emerse in modo flagrante nell’occasione della raccomandazione della madre degli Zebedeo fatta a Gesù davanti a tutti, tanto che “all’udire ciò, gli altri dieci s’indignarono contro i due fratelli” (Mt 20,24). L’indignazione corrisponderebbe, alla nostra epoca, ai vissuti di rabbia, invidia distruttiva e profonda frustrazione da cui sono presi i molti che si accorgono delle italiche raccomandazioni. Nel caso specifico Gesù li dovette riprendere, spiegando come l’esercizio del potere fra di loro, non avrebbe mai seguito le tipiche regole umane anzi, l’ambizione di essere “il più grande” sarebbe coincisa con la perizia ad essere il “servitore” degli uni e degli altri. c) L’esempio di umiltà più noto è relativo alla parabola del fariseo e del pubblicano. La preghiera carica di eccessiva prosopopea del primo, nonostante l’osservanza formale della Legge mosaica, che poneva al centro il proprio “io”, squalificava l’altro per pregiudizio e arroganza; per tale ragione, non trovò la benevolenza del Signore, che gli preferì invece il pubblicano (detestato ebreo, esattore delle tasse per conto dei Romani), al quale furono sufficienti poche parole, ma dense di pentimento; non osò nemmeno alzare gli occhi, esprimendo l’umiltà posturalmente e l’atteggiamento interiore buono derivante da un “cuore rotto” (Sl 34,18). d) In prossimità del suo arresto, l’ultimo grande insegnamento che Gesù lasciò ai suoi discepoli fu di lavare loro i piedi (Gv 13,5ss). L’intento del Signore era quello di rendere concreto il concetto di umiltà. Il significato non andava legato alla mera emulazione ripetitiva del medesimo atto, come periodicamente compie il papa di turno che svuota così il potente senso simbolico e spirituale; il senso è piuttosto quello del servizio per gli altri! Gesù ritornò sul suo ammaestramento domandando: “Comprendete quello che vi ho fatto?” (Gv 13,8). Che non volesse alludere all’aspetto igienico è fuor di dubbio. Pietro, in modo goffo, prima contrasta l’iniziativa di Gesù, poi vuole addirittura essere lavato integralmente. Povero Pietro, non ha capito il gesto di Gesù! Non intende il valore di un gesto che vuol dire spirito di umile servizio degli uni verso gli altri, quelle che avrebbero dovuto osservare – e imitare! – gli apostoli nel lavoro per il Signore. L’umiltà diventa la precondizione indispensabile, la garanzia dell’unità del nuovo popolo di Dio, la cui attività è propedeutica alla realizzazione del piano di salvezza anche oggi. Da quanto esposto, si evince come sia fondamentale l’apprendimento e la pratica dell’umiltà per contrastare e prevenire spinte personalistiche e atteggiamenti di superbia anche all’interno di un gruppo più o meno ampio di credenti, e per facilitare la coesione fra tutti. La carenza di umiltà produce effetti disgregativi e letali per la salute morale e spirituale, a maggior ragione ciò vale nella chiesa di Cristo (1 Cor 4,6 ss.). Riguardo alla funzione coesiva dell’umiltà l’apostolo Pietro scrive: Sottomettetevi tutti gli agli altri e rivestitevi di umiltà, perché Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili. Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, affinché Egli v’innalzi al tempo opportuno […] (1 Pt 5,5 s.). L’umiltà previene l’espansione rischiosa del senso di onnipotenza (Gen 3,4), che non consente la corretta percezione dei propri limiti. Mostrò tale incapacità il faraone egiziano (Es 7 ss.) ma, in misura diversa, anche il grande Mosè (Num 20,7 ss.), al quale fu negato l’accesso alla terra promessa (Deut 34,6 s.), pur rimanendo egli una persona di esemplare fedeltà nella storia biblica. L’umiltà contrasta l’invidia, favorendo l’autocritica, il senso di realtà, di responsabilità soggettiva e consente soprattutto di coltivare lo spazio mentale e culturale del rispetto verso tutti, a prescindere da chi sia l’altro. L’umiltà accompagna dunque l’ubbidienza alla parola del Signore. Nella chiesa del Signore di qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo non dovrebbe mai mancare il senso e la pratica dell’umiltà. © Riproduzione riservata Maurizio Santopietro – 12 2017

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