LAVORO
Il lavoro: etica cristiana e problemi vari
La grande maggioranza delle persone lavora soltanto per necessità, e da questa naturale avversione umana al lavoro nascono i più difficili problemi sociali
(S. Freud, Il disagio della civiltà).
Il lavoro intellettuale strappa l’uomo alla comunità umana. Il lavoro manuale, invece, conduce l’uomo verso gli uomini
(F. Kafka, Conversazioni con Gustav Janouch).
Il lavoro è oggi materia di discussione molto seria e delicata, vista la continua sottrazione di tutele e diritti ai lavoratori, la facilità di licenziamento e il cronico stato di precarizzazione. Il tema del lavoro presenta grande complessità per i molteplici ambiti d’interesse, anche distanti fra loro. Qui lo si vuole porre sotto la lente dell’insegnamento evangelico, senza forzate implicazioni politiche, economiche e sociali, dato che lo scopo primario e ultimo della fede in Cristo è la salvezza della persona nell’ambito del popolo di Dio, il cui solo capo è il Signore (Mat 28,19 s.; Ef. 4,10 ss.; 1 Tim 2,3 ss.).
Si vuole evitare, quindi, l’inutile strumentalizzazione di Gesù, da molti percepito in modo errato come primo comunista o socialista della Storia. Si assume infatti come sufficiente e definitiva la sua risposta alla questione del tributo: “Rendete a Dio ciò che è di Dio e a Cesare ciò che è di Cesare” (Mt 22,21; Mc 12,17; Lc 20,25), che distingue la dimensione della vita spirituale da quella politica. Ciò non significa che il singolo cristiano non possa nutrire proprie simpatie politiche o non possa partecipare alla vita politica e sociale, mantenendo i propri riferimenti ai valori neotestamentari; ma è la chiesa edificata dal Signore che, in quanto costruzione sua, non può farsi promotrice di una qualsiasi dottrina ideologica.
In biologia lavoro indica la specifica capacità funzionale del muscolo. Il concetto si estende quindi all’impegno prevalentemente fisico, che potremmo definire come sforzo muscolare, a cui si aggiunge contemporaneamente l’attività del sistema sensoriale. Il lavoro concettuale si differenzia dal lavoro manuale per il pregnante impegno del sistema di vigilanza coinvolto nella prestazione intellettuale. Il lavoro manuale, supportato sempre dall’impegno cerebrale, interessa la periferia senso-motoria nella sua totalità, mentre il centro investe soprattutto la funzione cerebrale legata alla elaborazione astratto-simbolica. Nell’uno e nell’altro significato di lavoro è implicito il senso di produzione creativa, sforzo finalizzato, qualità che ogni individuo aspira ad esprimere e ad ottenere riconosciuta. Anticamente il fattore primario (coltivazione, pesca e caccia) costituiva gran parte dell’occupazione; si richiedevano necessariamente braccia forti, coadiuvate dal lavoro degli animali. Era quindi il sistema di produzione economico-finanziario di riferimento che determinava le tipologie dell’organizzazione del lavoro.
Nella Genesi sono contrapposte le due classiche categorie di lavoratori, il coltivatore e l’allevatore, il cui oggetto di contrasto è necessariamente l’uso del suolo, avendo essi finalità antagoniste. Per inciso, Caino era agricoltore, Abele mandriano. La preferenza di Dio verso il “giusto Abele” (Mt 23,35) non fu dovuta a una predilezione per la carne o per gli allevatori, né al rigetto di frutta, ortaggi e verdure. Il Signore discriminò piuttosto il modo, cioè la disposizione interiore della mente dell’uomo (2 Cor 16,9). Abele elevò “per fede” la sua offerta, ciò che probabilmente non fece Caino.
Dio punisce la coppia primitiva per essersi mostrata irriconoscente per lo stato di grazia in cui viveva, e incapace di convivere armoniosamente col creato, nonostante la presenza vitale dell’Eterno. La pena dell’uomo fu di “mangiare il pane col sudore della fronte” (Gen 3,17 ss.). Ciò fa pensare che nella condizione precedente la caduta, Adamo ed Eva non dovevano affatto sforzarsi né industriarsi per soddisfare i bisogni principali, vivendo in maniera agevole, forse quasi troppo facile, tanto da svilire il privilegio avuto e scadere dalla grazia. Non ebbero una sufficiente coscienza del limite, se non dopo la trasgressione.
Il lavoro, come lo intendiamo genericamente, nasce come necessità di procacciare cibo e allo stesso tempo come bisogno di riscatto sociale e personale. Il lavoro sarà il metodo universale mediante cui poter soddisfare i bisogni più elementari e poter vivere degnamente e coerentemente con i propri principi morali. Il “sudore della fronte” indica ancora oggi la misura etica, autentica dello sforzo psicofisico profuso nell’esecuzione della specifica mansione socio-lavorativa; indica cioè l’onestà, il modo (deontologia professionale) in cui si svolge la propria mansione lavorativa e professionale. L’importanza del lavoro è elevata addirittura a principio Costituzionale, per cui il nostro Paese è una “Repubblica democratica fondata sul lavoro”, con tutto il rilevantissimo significato sociale che ne deriva.
Il lavoro contribuisce significativamente alla costruzione di un pezzo importante della propria identità, attuale e futura (proiezione progettuale del sé), ma questa importante funzione psicologica raramente viene considerata; essa attiva anche il processo di autostima, rafforzato dal consenso pubblico.
Il rapporto fra il credente e Dio potrebbe essere inteso come quello fra datore di lavoro e dipendente. Ad esempio, la predicazione è nel disegno divino un vero e proprio lavoro, tanto che l’evangelista viene accostato all’operaio e, come l’operaio, “è degno della sua ricompensa” (Lc 10,7). Anche il credente lavora per il Signore, e può aspirare a una generosissima ricompensa. Infatti, alla domanda degli apostoli “che ne avremo noi nel seguirti”, Gesù risponde che “chiunque avrà lasciato case o fratelli o sorelle o mogli o figli o campi per amore del mio nome, ne riceverà il centuplo ed erediterà la vita eterna” (Mt 19,29).
Il Signore è un datore di lavoro particolare, tanto generoso nella retribuzione da sembrare incomprensibile alla mente umana; egli infatti rimunera allo stesso modo sia il dipendente che ha lavorato molto tempo, sia quello che ha appena iniziato, contravvenendo alle comuni attese (Mt 20,1 ss.). L’apparente ingiustizia emerge dalla natura speciale del compenso destinato all’operaio dell’ultima ora: l’eternità, preceduta dalle benedizioni di cui beneficia il lavoratore di Dio. Non importa per quanto tempo si lavori, ciò che importa davvero è come si lavora.
Seguire il Cristo diventa perciò un lavoro molto serio, la cui esecuzione esige fede autentica (Eb 11,6; 1 Tm 6,12), adeguata conoscenza (Rom 10,2; 1 Gv 4,6), genuina ubbidienza, cioè capacità di osservare costantemente la sua Parola (Mt 28,19 s.; 1 Gv 1,3 ss.; 3,24) ed esige soprattutto il requisito dell’umiltà. Proprio per insegnare questa rara virtù, prima della passione, Gesù dovette ricorrere a un’azione da schiavo, il lavaggio dei piedi (Gv 13,5 ss.). Così insegnò concretamente la necessità di essere umili e inculcò il concetto del servizio verso gli altri. Poco tempo prima, gli stessi apostoli avevano conteso fra loro su chi fosse il maggiore (Mc 9,34). Essi ragionavano secondo le abituali categorie umane di pensiero, quali competizione, manifestazione esibizionistica dell’io, arrivismo. Al contrario, il lavoro morale del Signore mirava, e tuttora mira, a far sviluppare il senso del noi, in contrasto coi personalismi egoistici. L’umiltà del credente integra l’aspetto fisico (opere) con quello concettuale (insegnamento) nel lavoro per il Signore.
Il requisito per essere operaio di Dio sta dunque nella “compunzione del cuore”, nell’avere un “cuore rotto” (Is 61,1 ss.; Atti 2,37 s.). Sarà compito del Signore formare i suoi dipendenti, con aggiornamenti quotidiani, educando all’umiltà (Gv 13,1 ss.; 1 Cor 3,18) e preparandoli alla condivisione, atteggiamento che previene la conflittualità tra fratelli (Mt 20,24 ss.), purtroppo ancor presente nelle chiese del Signore.
Lavorando per il Signore, non si può fare il doppio lavoro (Mt 6,24), come talvolta avviene nella realtà comune, “perché nessuno può servire due padroni”, cioè Dio e il denaro, l’amore e l’avidità (Mt 6,24). In Cristo abbiamo anche il sindacalista (1 Gv 2,1 s.), certo piuttosto anomalo, dal momento che è figlio del padrone, come si sarebbe detto decenni fa, o figlio del datore di lavoro, come si direbbe oggi. Ma egli ha superato l’evidente conflitto d’interesse con la sua morte e risurrezione, in modo tale che nessun altro può mediare presso il Padre (1 Tm 2,5). Infine, se nel mondo ordinario la retribuzione è basata su durata e tipologia della prestazione d’opera, nella vigna del Signore tale criterio non viene osservato. Dio anzi, conoscendo a fondo la situazione del singolo lavoratore, valorizza qualcosa d’inconcepibile: a chi ha un talento solo, o a chi ne ha dieci, purché li abbiano fatti fruttare, Dio dona la medesima retribuzione, la vita eterna – questo emerge nella parabola dei lavoratori delle diverse ore (Mt 20,1 ss.).
È dunque Dio il datore di vita per eccellenza, anche se noi non riusciamo a comprendere la sua opera dall’inizio alla fine. Egli ci ha dotato del “pensiero dell’eternità” (Ecc 3,11) mentre compiamo il nostro lavoro.
© Maurizio Santopietro
Riproduzione riservata – 10 2017
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