UN PROFETA ITALIANO
Un profeta italiano
Un signore giapponese esce dalla fermata Metro ‘Colosseo’, si ferma sul marciapiede antistante l’Anfiteatro Flavio, lo guarda ammirato e in buon inglese dice alla moglie: “Siamo nella culla della civiltà!”
Di tanto in tanto, ma in special modo quando ci viene proposto di affidare il nostro destino presente ed eterno a moderni esotici profeti – e Dio sa se ce ne sono molti in giro – si può, anzi si dovrebbe, esser colti da un soprassalto di italianità. La quale non va confusa né con la nostalgia nazionalistica né con l’attaccamento ottuso a tradizioni claustrofobiche. Si tratta invece di genuina italianità, la quale consiste nel nutrire considerazione e stima per alcuni italiani che nel tempo hanno saputo impreziosire il bagaglio culturale del nostro Paese. Ma oggi cultura è parola odiata e invidiata qui da noi. Osservo un signore giapponese che esce dalla fermata Metro ‘Colosseo’, si ferma sul marciapiede antistante l’antico Anfiteatro Flavio, lo guarda ammirato e in buon inglese dice alla moglie: “Siamo nella culla della civiltà!”
Se gli italiani riuscissero a ricordarlo non darebbero alcun credito ai moderni profeti esotici. Basterebbe ricordare e considerare parole e fatti di italiani che sono stati davvero profetici nella loro azione.
Uno di questi è Giacomo Leopardi, che così scrive: “Anche sogliono essere odiatissimi i buoni e i generosi perché ordinariamente sono sinceri, e chiamano le cose coi loro nomi. Colpa non perdonata dal genere umano, il quale non odia mai tanto chi fa male, né il male stesso, quanto chi lo nomina. In modo che più volte, mentre chi fa male ottiene ricchezze, onori e potenza, chi lo nomina è strascinato sui patiboli, essendo gli uomini prontissimi a sofferire o dagli altri o dal cielo qualunque cosa, purché in parole ne sieno salvi” (G. Leopardi, Pensieri).
Pur scritto in un italiano ottocentesco, il pensiero di Leopardi risuona forte e chiaro in Italia e nel mondo. C’è infatti un luogo in cui il profetico messaggio leopardiano non sia puntualmente verificato?
L’odio verso i buoni e i generosi, perché sinceri, lo conobbe anche Cristo Gesù. L’odio verso chi, sinceramente, chiama le cose coi loro nomi, risale almeno al momento in cui Cristo chiamò col suo nome, cioè “volpe”, il più potente uomo politico della sua regione (Luca 13,32).
Gesù chiama inoltre coi loro nomi, cioè “ipocriti” e “sepolcri imbiancati”, le guide religiose cieche – a qualunque gruppo religioso appartengano – le quali “colano il moscerino e inghiottono il cammello” e “legano dei pesi gravi e li mettono sulle spalle della gente, ma loro non li vogliono toccare neppure col dito”. Proprio nel contesto di questo discorso (Matteo 23), Gesù preannuncia persecuzioni e uccisioni per coloro che avrebbero proposto, invece, un rapporto con Dio (religione) fatto di semplicità, amore, dedizione a Dio, comunione affettuosa e comunità. Si tratta di proporre la fede fiduciosa dell’Evangelo di Cristo e non certo “ricchezze, onori e potenza” – come dice Leopardi – di profeti, fedi e religioni che si sono ben sistemati in questo mondo.
Leopardi avverte che il “genere umano non odia mai tanto chi fa male, né il male stesso, quanto chi lo nomina”. Ebbene, Pietro apostolo è uno che osa proprio nominare il male, e così ne scrive: “Non siamo andati dietro a favole abilmente inventate... ma siamo stati testimoni oculari della maestà” di Cristo. E ancora: ci saranno “falsi profeti e... maestri d’errore che introdurranno eresie di perdizione”, gente dissoluta, sfruttatori, imbonitori dai discorsi finti (2 Pietro 1-2). Pietro fu ucciso, probabilmente sotto le persecuzioni neroniane, per la testimonianza della sua fiducia in Cristo. Paolo apostolo è un altro che osa nominare il male: “Dio li ha abbandonati in balìa di passioni vergognose... malvagità, cupidigia, cattiveria, ricolmi di odio, omicidio, contesa, inganno, malignità, calunniatori, maldicenti, odiatori di Dio, violenti, superbi, millantatori, inventori di mali, ribelli ai genitori, insensati, perfidi, senza amore, spietati...” (Romani 1,26 ss. nel suo prezioso contesto!). Paolo apostolo fu perseguitato e ammazzato per la sua fede. La profetica parola di Giacomo Leopardi e, prima della sua, quella di Cristo, resta verificata ancora una volta.
Queste liste di mali, in Pietro e in Paolo, costituiscono solo due esempi delle molte che si potrebbero citare dal Nuovo Testamento. Esse sarebbero state degne di comparire e d’essere considerate da Umberto Eco quando pubblicò Vertigine della lista (2009). Chissà che cosa avrebbe potuto dire il semiologo sui “maestri d’errore”, dissoluti e sfruttatori, sulle malignità proferite (e ascoltate) dai maligni, sulle calunnie lanciate dai calunniatori, sulla spietatezza usata dagli spietati o sulla perfidia inoculata dai perfidi. Queste liste rappresentano il grafico morale, disegnato per punti, di una società malata in tutti i suoi gangli, anche, e soprattutto, nelle sue articolazioni religiose o pseudo tali.
I cristiani stessi sembrano essersi abituati alla im/moralità, alla a/moralità e quindi alla ipo/crisia. Il grido profetico di Osea (4,6), “il mio popolo perisce per mancanza di conoscenza”, addita oggi una ignoranza morale spirituale incommensurabile.
Quelli che odiano i buoni e i generosi perché sono sinceri e chiamano le cose coi loro nomi; quelli che non perdonano la colpa della sincerità; quelli che non odiano mai tanto chi fa male, né il male stesso, quanto chi lo nomina, quelli, appunto, sono spesso i cristiani. Il male c’è, lo si vede bene. Il male si mostra in tutta evidenza. Paolo scrive che il male è fanerós, cioè “manifesto” (Galati 5,19). Ma guai a parlarne! e, di più, guai a scriverne. Così, nel silenzio ipocrita e complice, si rischia di diventare buoni per finta o per forza, perché il silenzio che non denuncia il male è complicità. Così, per andare d’accordo col mondo, si diventa nemici del vero Bene, cioè di Dio. Dice Gesù: “Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i falsi profeti” (Luca 6,26).
Quando pertanto si afferma, a proprio rischio e pericolo, che il genere umano odia più chi nomina il male che chi lo compie, si mette il dito nella piaga della immensa ipocrisia che spesso, purtroppo, caratterizza il comportamento della persona umana sia verso l’altro sia verso Dio. Ne consegue un amore ipocrita verso il prossimo e un amore altrettanto ipocrita verso Dio. L’antica parola d’ordine, attualissima, è dunque “guardarsi” (Matteo 16,6). Guardarsi soprattutto dal lievito dei religiosi. Infatti sono proprio questi che Gesù rimprovera, dicendo: “Voi, di fuori, apparite giusti alla gente; ma dentro siete pieni di ipocrisia e di iniquità” (Matteo 23,29).
Per tutto questo, l’invito cordiale è ritornare a Cristo Gesù. Ritornare alla semplicità della sua Notizia Buona (Evangelo). Sta qui la fonte della fede sincera e, quindi, la gioia del regno di Dio. Però, come dice Paolo e come ribadisce Leopardi, senza farsi illusioni (come quelle presentate dai moderni esotici profeti). Il male non rinuncerà a procurare sofferenze e tribolazioni le quali, per i credenti, sono strumenti per “entrare nel regno di Dio” (Atti 14,22).
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Roberto Tondelli – 06 2017
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