Riflessioni

INVIDIA

Chiesa di Cristo Gesù in Pomezia ______________________________ Maurizio Santopietro Invidia: il vero peccato originale? ____________________________________ © M. Santopietro, Invidia: il vero peccato originale? – 2015 Per domande, osservazioni, richiesta di copie dello studio o autorizzazione alla pubblicazione: Chiesa di Gesù Cristo largo Goffredo Mameli, 16A I 00040 Pomezia, Roma (RM) www.chiesadicristopomezia.it info@chiesadicristopomezia.it 06 91251216 - 339 5773986 Pomezia (Roma), 2015 Presentazione Lo scritto che segue tocca aspetti del pensiero e del comportamento umani che alcuni sembrano trascurare. Un buonismo diffuso e insulso fa ritenere a taluni che non si debba parlare pubblicamente di certi pensieri e comportamenti malvagi, che i difetti li si debba dimenticare, accantonare, che i peccati, a un certo punto, vadano in prescrizione... e che tutto debba esser coperto dal manto della divina misericordia (e delle “fraterne” maldicenze). Una simile concezione, che passa oggi per religiosamente corretta, permea di sé un modo ipocrita e superficiale di considerare (e di ignorare) fatti, situazioni e comportamenti estranei allo spirito e alla lettera dell’Evangelo, e quindi ben lontani dalla misericordia divina correttamente intesa. Secondo tale concezione stolta, per far scomparire il peccato basta dimenticarlo, non parlarne più... Si tratta, a ben vedere, di uno dei mille modi in cui l’Evangelo viene ancor oggi tradito. E tradito, talvolta, da chi afferma d’essere discepolo di Cristo, ma non vuole farsi turbare e disturbare più di tanto dalla proclamazione rivoluzionante della Parola. Misericordia significa cuore spezzato a mezzo: il cuore di Cristo si spezza per amore del peccatore. Il quale, perciò, è chiamato al fattivo ravvedimento del proprio peccato, non alla sua dimenticanza, né alla enunciazione della mera formula “scusa tanto, non volevo”! Alla donna plurimaritata, a Zaccheo, ai circa tremila assassini del giorno di Pentecoste e a tutti gli altri peccatori che Cristo incontra egli non dice di dimenticare i loro peccati, di non parlarne, di non valutarli, né egli stesso li nasconde agli occhi dei diretti interessati. I peccati dei Corinzi, le azioni pessime dei giudeo-cristiani e le aberrazioni degli gnostici sono stigmatizzati e spubblicati dagli scrittori biblici, non certo ignorati. Si esige dai peccatori un ravvedimento visibile, fattivo e ben costoso, che segni la metànoia (cambiamento interiore) di ciascuno di loro, come di ogni peccatore in ogni tempo. Il buonismo religiosamente corretto è biblicamente scorretto. Il Dr. Maurizio Santopietro ci invita a seguirlo in un breve ma intenso viaggio nell’animo umano devastato dal peccato di invidia, a causa del quale ciò che pare inspiegabile alla luce dell’amore fraterno, si spiega benissimo con la “fraterna” invidia. Il viaggio, tuttavia, non si snoda solo lungo i sordidi meandri della mente corrosa dall’invidia, ma indica pure l’unico antidoto esistente e biblicamente corretto a un tale veleno mortale. [RT] Invidia: il vero peccato originale? O invidia, radice di mali infiniti, verme roditore di tutte le virtù (Miguel de Cervantes, Don Chisciotte II, cap. 8). Prima di affrontare l’argomento principale ci soffermeremo brevemente sull’attributo “originale” del termine “peccato”. In ambito religioso tale attributo è applicato in genere alla trasmissione automatica generazionale del primo peccato commesso dalla coppia umana, erroneamente identificato con la pratica sessuale. Si trattò invece di trasgressione della legge divina, cioè di un atto di disubbidienza (Gen 2,16) dotato di gravi conseguenze: l’allontanamento dalla fonte della Vita, la separazione del mondo materiale dell’uomo (dimensione del finito, della morte) dalla spiritualità di Dio (posta nell’infinito, nella vita eterna). Con il peccato è stata introdotta la morte, non compatibile con il regime di vita eterna; né sarebbe stata possibile la coesistenza fra la corruzione e l’habitat incontaminato; in altre parole, non sarebbe stato possibile che il disordine, conseguenza della corruzione, fosse capace di alterare gli equilibri fissati dal Signore. Il primo punto è perciò di disgiungere il peccato originale dalla sessualità; il secondo è evitare l’uso strumentale del medesimo concetto, teso a sostenere il battesimo dei bambini (sconosciuto alla tradizione apostolica conservata nel Nuovo Testamento). Il peccato originale invece potrebbe essere applicabile più all’invidia, termine che ricalca il latino invidia, dal verbo invidere, guardare con ostilità, con malanimo, con avversione. (1) Nella teologia cattolica, uno dei sette peccati capitali consistente nell’affliggersi per il bene del prossimo come di male proprio e nel desiderarne la rovina. (2) Sentimento di rancore e di astio per la fortuna, la felicità o le qualità altrui, spesso unito al desiderio che tutto ciò si trasformi in male […]. In psicologia l’invidia è considerata come “desiderio frustrante di ciò che non si è potuto raggiungere per difficoltà od ostacoli che non sono o non sembrano facilmente superabili, ma che altri, nello stesso ambiente o in condizioni apparentemente analoghe, ha vinto o vince con manifesto successo. Provoca in genere reazioni di malevolenza e, particolarmente nel bambino, in cui si nota più di frequente, si dimostra negativa e perturbante. In alcuni casi l’invidia tende alla generalizzazione e informa notevolmente i rapporti interpersonali, imprimendo un tratto caratteristico e accentuato alla personalità. Raramente, in particolare nell’adulto, l’invidia può riuscire positiva, stimolando all’azione […]”. Le definizioni di cui sopra ci aiutano a comprendere meglio il potenziale distruttivo dell’invidia, anche secondo la narrazione che ne fa la Bibbia. È utile ricordare che ancor prima che l’umanità fosse stata creata, vi erano già esseri spirituali forgiati dalla mano di Dio, gli angeli. Emerge, fra le righe, la lotta, questa sì originale, fra male e bene; da una parte abbiamo l’azione ostile a Dio capeggiata da satana, dall’altra il bene con l’opera creatrice di Dio. Abbiamo una traccia di ciò che è plausibile ipotizzare, quando Gesù afferma: «Io vidi satana cadere dal cielo come una folgore» (Lc 10, 18). L’esistenza del genere umano avviene in questo clima di conflittualità originaria e, infatti, la dicotomia è la dimensione entro cui l’uomo tipicamente esiste: vita-morte, bene-male, luce-tenebre, verità-falsità, positivo-negativo, gioia-dolore, invidia-ammirazione, etc…. L’ipotesi più verosimile è che l’Avversario, pur godendo della vicinanza del Signore e avendo la possibilità di disporre di poteri eccezionali, tali da essere paragonato a Gesù (Eb 1,4 ss.), nutrì una profonda invidia verso Dio e, più decisamente, verso la Sua assoluta indipendenza, in quanto unico Essere nell’universo ad avere vita in sé. Satana avrebbe voluto possedere siffatto attributo esclusivo del Signore, ma la certezza di non poter mai goderne, favorì una profonda frustrazione, humus da cui sarebbe scaturita l’invidia e la ribellione a Dio. L’invidioso, per rimuovere l’insofferenza provocata dalla stessa invidia, è costretto ad “abbattere” la persona su cui proietta la propria invidia; tra l’altro, non potendo riconoscersi responsabile della propria invidia (negazione), essendo incapace di autocritica, sposta il focus e le cause all’esterno! La negazione determina una forte distorsione della realtà per assoggettarla alle proprie esigenze. In genere, l’invidioso fa uso di bugie, mediante cui manipola la realtà per accomodarla alla propria volontà. L’invidia è una qualità egemone attorno a cui ruota una costellazione di altre negatività: • la falsità, • l’irresponsabilità, • il sadismo morale, • la denigrazione dell’altro, • il narcisismo patologico, • il senso d’inferiorità • e un’intensissima frustrazione di fondo. Tutto ciò induce all’assunzione di comportamenti distruttivi. Ad esempio, nella raffigurazione allegorica del serpente (Gen 3,1ss), satana, instillando il germe endemico della superbia, stimolò la voglia umana di onnipotenza – originariamente propria di satana –, facendo scattare la molla del peccato; lo scopo era di ricavare un’indiretta soddisfazione basata sul “fallimento” dell’umanità, e quindi di Dio, per ottenere un’effimera forma di “gratificazione” fondata sulla (momentanea) disgrazia altrui, e vissuta come proprio successo (transitorio). Millenni dopo, la “tecnica manipolatoria” di satana, non avrà lo stesso effetto con Gesù (Lc 4,1ss), sebbene satana faccia viscidamente uso di brani biblici dell’Antico Testamento. L’invidia può essere innescata addirittura dalla sola presenza della persona sana la quale, senza una sua precisa volontà, evidenzierebbe le incapacità intrinseche dell’invidioso, vivendo questi un profondo complesso d’inferiorità! L’invidioso quindi colpevolizza l’altro, che è ritenuto la fonte dei suoi mali. Già nei primi capitoli della Bibbia (Gen 4,1ss) si narra del primo fratricidio. Caino, l’agricoltore, è il fratello maggiore di Abele. Egli offre a Dio dei sacrifici, frutti di campo come sorta di riconoscimento, come “sdebitamento morale”, anche se non richiesti esplicitamente da Dio stesso. La Scrittura non specifica la qualità dei frutti. Descrive invece l’offerta fatta da Abele: capi d’animali primogeniti senza alcun difetto (Gen 4,4). Possiamo dedurre che il “materiale” donato dai due rappresentasse la disposizione interiore, visto che Dio apprezza non tanto il sacrificio in sé, quanto il cuore “rotto”, la misericordia (Osea 6,6). Abele non pensò di “competere per chi fosse migliore”, non ebbe intenzione di deridere il fratello sciorinando platealmente la sua fedeltà, fu solamente “colpevole” di essere degno di approvazione da parte del Signore. Da quel momento non fu “uguale” a suo fratello. Da quel momento Caino sentì addosso un’insopportabile irritazione che si abbatté su di lui gravosamente! Questa insostenibile tensione emotiva gli dilaniò l’anima. Caino spostò la causa della sua insofferenza sul fratello e, per neutralizzarla, lo aggredì a morte. Ma l’invidia sarà protagonista anche in tante altre vicende, essendo una tipica patologia dell’animo umano. Giuseppe, con le sue doti e i suoi talenti, fu oggetto di invidia da parte dei fratelli: “E i suoi fratelli gli portavano invidia, ma suo padre serbava la cosa dentro di sé” (Gen 37,11ss). Lo stesso si può dire di Gesù che fu consegnato a Pilato “per invidia” (Mt 27,18). Si può convenire con Pascal che Gesù Cristo è prefigurato da Giuseppe: “Prediletto del padre. Inviato dal padre a vedere i suoi fratelli, ecc., innocente venduto dai fratelli per venti denari, e per questa via divenuto loro signore, loro salvatore, e il salvatore degli stranieri, e il salvatore del mondo; il che non sarebbe stato senza il loro proposito di perderlo, la vendita e il ripudio che di lui fecero. Nella prigione, Giuseppe innocente tra due criminali; Gesù Cristo sulla croce tra due ladroni. Predice la salvezza all’uno e la morte all’altro, con le stesse apparenze. Gesù Cristo salva gli eletti e danna i reprobi, in base alle stesse colpe. Giuseppe si limita a predire, Gesù Cristo agisce. Giuseppe domanda a colui che sarà salvato di ricordarsi di lui quando sarà giunto alla sua gloria; e colui che Gesù Cristo salva gli domanda di ricordarsi di lui, quando sarà nel suo regno.” Facendo un salto temporale di millenni, in Matteo (27,17 s.) troviamo scritto: “Quando si furono radunati, Pilato chiese loro: ‘Chi volete che vi liberi, Barabba o Gesù, detto Cristo?’ Perché egli sapeva bene che glielo avevano consegnato per invidia.” Questo brano pone in rilievo come, rispetto alle autorevoli e molteplici analisi di natura esegetica, filologica, storica e dottrinale, fu una malattia dell’anima ad essere determinante per la morte del Signore. È una “patologia” morale che nel lontano passato causò l’omicidio di Abele, la brutale separazione di Giuseppe dai suoi cari, e la consegna di Gesù ai suoi carnefici da parte di persone che erano familiari e figli di Dio! Oggi, come allora, il rischio è che l’invidia possa ferire mortalmente il corpo del Signore, la Chiesa, la sposa di cui Cristo è il Capo, producendo anche laceranti separazioni. Per tale ragione troviamo nell’Evangelo altri importanti riferimenti sull’invidia: • è una regressione spirituale gravissima (1 Cor 3,3); • è una qualità maligna in stretta relazione con altre (Rm 1,29); • può essere persino una falsa motivazione a predicare l’Evangelo (Fl 1,15); • è causa di contesa che, incrementando morbosità inutili, ci rende estranei alla sana edificazione (1 Tm 6,4); • è un vecchio e pessimo retaggio di quando eravamo privi di Dio, ma pronti ad agire per invidia (Tito 3,3); • è il nucleo centrale di cose malvagie (Gc 3,16); • costituisce una potenzialità omicida (Gc 4,2). Ma la follia più disastrosa è portare invidia a “quelli che operano perversamente, perché saranno presto falciati come il fieno e appassiranno come l’erba verde” (Sl 37,2). Anche noi, cristiani più o meno esperti e più o meno maturi, non dovremmo mai abbassare la guardia verso questo nemico mortale che può albergare subdolamente in noi. Esercitiamoci quindi all’introspezione, poiché potremmo non essere esenti dai tentacoli dell’invidia. Il commediografo latino Publio Terenzio ricorda che “nulla di ciò che è umano, lo reputo a me estraneo”; ma noi, come cristiani, dovremmo ricordare di assumere l’unico antidoto possibile al veleno dell’invidia: praticare il modello di Cristo attraverso l’ammirazione di Lui, che ci spinge a interiorizzare interamente il suo insegnamento e non a possederlo per poi distruggerlo, come accade perfidamente con l’invidia.

Vedi allegato

Torna alle riflessioni